
Va risarcito o no il proprietario del veicolo non assicurato?
L’art. 193, primo comma, del codice della Strada, rubricato “Obbligo dell’assicurazione di responsabilità civile”, stabilisce che i veicoli a motore senza guida di rotaie, compreso i filoveicoli e i rimorchi, non possono essere posti in circolazione sulla strada senza la copertura assicurativa a norma delle vigenti disposizioni di legge sulla responsabilità civile verso terzi.
I commi successivi stabiliscono una serie di sanzioni per chi guida senza copertura RCA.
Sulla scorta di tale norma il Tribunale di Napoli (sent. 18/06/2024) ha negato il risarcimento dei danni e in particolare dei danni fisici/biologici patiti dal conducente/proprietario di un veicolo non assicurato.
Pertanto, se il veicolo non poteva, né doveva essere posto in circolazione privo di assicurazione RC Auto, anche il danno ingiusto patito dallo stesso non merita di essere ristorato. Diverso discorso va fatto se vi è un terzo, ad esempio trasportato sul veicolo non assicurato: non ha responsabilità della messa in circolazione di mezzo privo di copertura assicurativa, per cui merita di essere ristorato dai danni subiti. Egli può in questo caso agire direttamente (ex art. 144 cod. ass. private) contro il mezzo del responsabile civile. Al riguardo, la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire qualche anno fa che <<Il proprietario del veicolo, il quale al momento del sinistro viaggiava sul cofano dello stesso come trasportato mentre alla guida vi era un minore di età, ha diritto ad ottenere dall’assicuratore il risarcimento del danno derivante dalla circolazione non illegale del mezzo, senza che assuma rilevanza la sua eventuale correponsabilità, salva l’applicazione, in detta ipotesi, dell’art. 1227 c.c.>>(Cass. civ., Sez. VI – 3, Ordinanza, 03/07/2020, n. 137381)
Il decisum della corte partenopea non è assolutamente frutto di un orientamento consolidato, posto che in molti altri casi il proprietario del mezzo non assicurato, che abbia subito un danno ingiusto, è stato risarcito. La stessa Cassazione nel 2022 [Cass. civ., Sez. III, 17/01/2022, n. 1179] ha smentito il recente arresto del Tribunale di Napoli, sopra citato, sostenendo invece che “negare l’azione diretta ex art. 144 c.d.a. contro l’assicuratore del responsabile civile per essere il veicolo del vettore non coperto da valida polizza assicurativa è soluzione manifestamente irrazionale e non correlata alla ratio di tutela del danneggiato che anima e sorregge tutto il codice delle assicurazioni. È del tutto evidente che l’art. 122 non incide sulla legittimazione all’esercizio dell’azione diretta di cui all’art. 144. L’articolo 122, infatti, detta un obbligo relativo al mettere in circolazione un veicolo; ciò però non significa che il soggetto “danneggiato per sinistro causato dalla circolazione di un veicolo” trovi, se intenda esercitarla, l’azione dell’art. 144 “sbarrata” dall’inammissibilità, essendosi su due piani evidentemente diversi.”2
Non resta che attendere un intervento chiarificatore.
1Fonti: Quotidiano Giuridico, 2020
2Fonti: Quotidiano Giuridico, 2022
Manifestazioni pubbliche e Rumori Molesti: anche i Comuni risarciscono

E’ tempo di rassegne teatrali nelle piazze del Bel Paese, di Cinema all’aperto, Concerti di musica leggera o classica. Ma è tempo anche di rispettare i sacrosanti diritti al riposo dei cittadini.
Se un Comune organizza manifestazioni pubbliche, ha anche il dovere di evitare quelle che il codice civile chiama Immissioni rumorose (art. 844 c.c.), essendo chiamato – viceversa – risponderne sul piano risarcitorio, in termini di danno non patrimoniale, che può essere determinato anche in via presuntiva.
E’ questo il senso di un recentissimo arresto della Suprema Corte di Cassazione (18676/2024 del 09/07/2024), che cita a sostegno dell’orientamento un pregresso arresto del 2023: secondo cui anche un ente pubblico è soggetto all’obbligo di non provocare immissioni rumorose ed <<è responsabile dei danni conseguenti alla lesione dei diritti soggettivi dei privati, cagionata da immissioni provenienti da aree pubbliche, potendo conseguentemente essere condannata al risarcimento del danno, così come al “facere” necessario a ricondurre le dette immissioni al di sotto della soglia della normale tollerabilità, dal momento che tali domande non investono – di per sé – atti autoritativi e discrezionali, bensì un’attività materiale soggetta al richiamato principio del “neminem laedere“.>> (Cass. 14209/ 2023)
L’interesse pubblico a svolgere le manifestazioni non è tale da comprimere del tutto il diritto soggettivo del privato a godere del riposo delle vacanze, secondo il criterio della normale tollerabilità.
Non è esercizio abusivo della professione di fisioterapista la manipolazione del masso-fisioterapista e kinesiologo. No lesioni colpose
A cura di Federico Fuscà*
Un uomo si rivolge ad uno studio olistico per un torcicollo e mal di testa, per una contrattura occorsa nel corso di una partita di pallavolo. Il kinesiologo aveva svolto i tipici test muscolari, effettuati con la pressione delle proprie mani. Detti test servono a ottenere informazioni sullo stato di equilibrio dell’individuo a livello fisico/strutturale, mentale/emotivo e biochimico/funzionale: il tutto valutando la prontezza e la qualità della risposta dei muscoli rispetto agli stimoli esercitati. Tuttavia, il paziente si sentiva male. Veniva chiamato il 118. In ospedale gli veniva riscontrato “ictus ischemico cerebellare e bulbare sinistro da embolia per dissecazione vertebrale sinistra”.
Ovviamente una patologia sì complessa non può essere ricondotta sul piano eziologico alle manipolazioni operate dall’imputato, quanto, piuttosto, all’importante trauma sportivo.
Peraltro, benché non fosse fisioterapista, l’imputato, oltre ad essere kinesiologo, era masso-fisioterapista. Specialità questa non definita in maniera univoca, sia sul piano normativo che dal punto di vista delle letture giurisprudenziali.
Il Tribunale rileva che l’imputato non ha posto in essere alcuna delle attività specifiche, riservate dalla legge ai fisioterapisti: non incorrendo in tal modo nel reato di cui all’Art. 348 codice penale, “Esercizio abusivo di una professione”.
Il Tribunale di Treviso, espletata l’istruttoria, anche con l’intervento di un importante membro AKSI, assolve il kinesiologo con formula piena: perché il fatto non sussiste. L’imputato non poneva in essere alcuna delle attività riservate dalla legge ai fisioterapisti. Tuttavia, quand’anche avesse effettuato una tipologia di trattamento assimilabile a quella del fisioterapista, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha più volte equiparato la attività di masso-fisioterapista, previo corso triennale, a quella di fisioterapista. In forza del principio del favor rei il nostro kinesiologo e masso-fisioterapista è stato correttamente assolto con formula piena.
- avvocato del Foro di Velletri, cassazionista, membro CD della Fondazione della Avvocatura Veliterna, Direttore della Rivista Quaderni Forensi Veliterni

Assolto il Kinesiologo dall’accusa di esercizio abusivo della professione medica
Una signora si rivolge ad uno studio olistico per un mal di schiena. Il kinesiologo, con l’ausilio di un magnete e dei tipici test muscolari, effettuati con la pressione delle proprie mani, si adopera per alleviare la situazione di sofferenza. Prescrive degli integratori alimentari; poi, suggerisce alla avventrice di chiedere al proprio medico curante di sottoporla ad alcuni test clinici.
La dottoressa del SSN, per tutta risposta, sporge denuncia penale per abusivo esercizio della professione medica.
L’Art. 348 c.p. (Esercizio abusivo di una professione) testualmente recita: «Chiunque abusivamente esercita una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 10.000 a euro 50.000.
La condanna comporta la pubblicazione della sentenza e la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e, nel caso in cui il soggetto che ha commesso il reato eserciti regolarmente una professione o attività, la trasmissione della sentenza medesima al competente Ordine, albo o registro ai fini dell’applicazione dell’interdizione da uno a tre anni dalla professione o attività regolarmente esercitata.
Si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 15.000 a euro 75.000 nei confronti del professionista che ha determinato altri a commettere il reato di cui al primo comma ovvero ha diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo».
Il Tribunale di Treviso, espletata l’istruttoria, anche con l’intervento di un importante membro AKSI, assolve il kinesiologo con formula piena: perché il fatto non sussiste.
Il foglietto, privo di timbro e firma del kinesiologo, su cui erano stati enumerati i test clinici, che il medico avrebbe potuto eventualmente prescrivere, non rappresenta una prescrizione in senso tecnico. Inoltre, la suggerita assunzione di integratori alimentari, unitamente ai test muscolari, non integra l’esercizio della professione medica.
Con troppa leggerezza il medico del servizio sanitario nazionale ha denunciato il kinesiologo. Infatti, a chiosa della vicenda, possiamo assumere come precipitato della sentenza in commento che l’uso di integratori alimentari non equivale infatti alla prescrizione di farmaci; suggerire dei test clinici differisce dal prescriverli (casa che spetta in ultima istanza al medico abilitato); le manipolazioni, effettuate senza aghi e bisturi, ma con la pressione delle dita, non invade il campo dell’arte medica.
* avvocato del Foro di Velletri, cassazionista, membro CD della Fondazione della Avvocatura Veliterna, Direttore della Rivista Quaderni Forensi Veliterni

Urbanistica: Nelle ordinanze di demolizione di manufatti abusivi la motivazione è in re ipsa e non occorre comunicare l’avvio del procedimento, trattandosi di atto vincolato.
Urbanistica: Nelle ordinanze di demolizione di manufatti abusivi la motivazione è in re ipsa e non occorre comunicare l’avvio del procedimento, trattandosi di atto vincolato.
L’ingiunzione di demolizione non è impedita dal sequestro penale del manufatto abusivo.

Riforma Cartabia e ADR. La Mediazione corre
articolo pubblicato sulla Rivista della Fondazione della Avvocatura Veliterna “Quaderni Forensi Veliterni” vol. 5 n. 2 anno 2022

Ospedali Classificati. Lo Stato dell’arte
Il ripianamento dei debiti delle aziende ospedaliere è a carico dell’Ente proprietario.
Questo, fra gli altri, il dictum della V sezione del Consiglio di Stato, contenuto nella sentenza n. 6130/11, che conferma la decisione di prime cure ad opera del Tar del Lazio.
Il ricorso, presentato da un’azienda ospedaliera privata, proprietaria di un ospedale classificato, ha ad oggetto la remunerazione delle prestazioni ospedaliere e delle prestazioni ambulatoriali e riabilitative. La ricorrente ed appellante (in quanto soccombente in primo grado) rammenta che gli ospedali classificati sono parificati a quelli pubblici con la conseguenza che entrambi debbono essere finanziati in egual misura. Contesta, altresì, che in favore degli ospedali pubblici vi è in più il ripianamento dei disavanzi e che ciò violi il prefato principio di parificazione. Questa la censura principale avverso il provvedimento impugnato, una delibera regionale dell’anno 2005.
I Giudici di Palazzo Spada ricostruiscono la ratio sottesa al servizio sanitario nazionale e spiegano che “gli ospedali pubblici rappresentano la vera e propria struttura del servizio sanitario nazionale, e il vero e proprio intervento diretto del Servizio sanitario nazionale nei confronti della collettività, così come espressamente previsto dalla riforma del sistema attuata con la legge n. 833 del 1978, mentre tutte le altre strutture che in qualche modo confluiscono nello stesso sistema sono tutte in misura maggiore o minore complementari dello stesso sistema, per cui non può non rilevarsi che le strutture pubbliche, tenute comunque a rendere il servizio, debbono essere per quanto possibile messe in condizione di operare.” Il ripianamento dei debiti, peraltro, spetta a chi ne è proprietario: pertanto la mano pubblica è tenuta a coprire i disavanzi delle strutture ospedaliere pubbliche.
Spetta ai privati, proprietari di ospedali classificati, occuparsi delle proprie passività di bilancio: atteso che nel settore spicca un “più importante motivo di intervento pubblico nel ripianamento dei disavanzi degli ospedali pubblici, ed è quello che il suddetto ripianamento compete al soggetto che ha la proprietà degli stessi, mentre le strutture private, per quanto classificate hanno una diversa proprietà, alla quale compete, ai sensi della normativa generale, il prendere in considerazione la copertura delle eventuali perdite riscontrate.”
Corretto è l’operare della Regione che ha ripartito per classi e secondo criteri predeterminati ed equi le risorse relative ai budget di spesa sanitaria.
Ultima notazione in punto di processo amministrativo: le autorità statali vocate in ius in primo grado si erano difese adducendo il proprio difetto di legittimazione passiva e chiedendo la estromissione dal giudizio, atteso che si verteva in tema di delibera regionale, peraltro in materia costituzionalmente assegnata alle Regioni. Avendo il Tar Lazio respinto siffatta estromissione, le prefate Autorità ripropongono la medesima eccezione nella memoria di costituzione in secondo grado. Essa, ad avviso dei Giudici di Piazza Capo di ferro deve essere di nuovo respinta: “ va disattesa la eccezione di difetto di legitimatio ad causam delle autorità statali, in quanto la relativa statuizione del TAR è stata contestata con semplice memoria difensiva, anziché con formale appello”.

Cessioni di credito: non basta la pubblicazione in Gazzetta
Non basta allegare la pubblicazione in Gazzetta della cessione di un credito bancario. Occorre dimostrare l’esistenza della cessione, documentando il contratto. La mera pubblicazione in Gazzetta Ufficiale “non costituisce prova idonea a dimostrare che il credito vantato rientri tra quelli oggetto del trasferimento ivi attestato, rendendosi necessario a tale scopo anche il deposito del contratto di cessione intercorso relativamente a quel credito”. Questo il dictum di una sentenza del 2021 del Tribunale di Cassino [1140/2021 pubbl. il 09/08/2021, RG n. 2296/2019], con cui è stata accolta una opposizione a decreto ingiuntivo da parte di due clienti dell’Avv. Federico Fuscà, che si erano visti recapitare un decreto ingiuntivo di € 24.183,44, oltre interessi, per non aver onorato un “prestito al consumo” di una nota Banca europea.
Lo studio ha svolto efficacemente opposizione a decreto ingiuntivo, ottenendo la revoca del decreto e la condanna della società cessionaria alle spese di lite.
A completamento del fatto, occorre anche dire che la Banca che ha erogato il credito ha cartolarizzato il titolo e lo ha ceduto ad una società. Questa, successivamente, lo ha ceduto alla società parte del giudizio, che ha richiesto ed ottenuto decreto ingiuntivo, oggetto della opposizione in parola.
Emergono alcuni principi nella parte motiva dell’arresto.
“La parte che agisca affermandosi successore a titolo particolare del creditore originario, in virtù di un’operazione di cessione in blocco secondo la speciale disciplina di cui all’art. 58 del d.lgs. n. 385 del 1993 (Testo Unico Bancario, T.U.B.), ha anche l’onere di dimostrare l’inclusione del credito medesimo in detta operazione, in tal modo fornendo la prova documentale della propria legittimazione sostanziale, salvo che il resistente non l’abbia esplicitamente o implicitamente riconosciuta”. (Cass. 24798\2020; 4116\2016)
“Gli assunti di parte opposta che, dopo aver precisato di essere divenuta titolare del contratto di cessione pro-soluto ai sensi degli artt. 1 e 4 della Legge n. 130 del 30 aprile 1999 e dell’art. 58 del Testo Unico Bancario, sottolinea in comparsa il rituale adempimento degli obblighi pubblicitari previsti da tale normativa mediante pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana non sono pertinenti né in contestazione”, si spiega nell’arresto in commento.
<<La formalità della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale – prosegue il Giudice -, secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito che si ritiene condivisibile, “non costituisce prova idonea a dimostrare che il credito vantato rientri tra quelli oggetto del trasferimento ivi attestato, rendendosi necessario a tale scopo anche il deposito del contratto di cessione intercorso relativamente a quel credito. (Cfr., Cass, 23 febbraio 2018 n. 4453). Peraltro, non volendo trascurare l’esistenza di un orientamenti della giurisprudenza di legittimità meno restrittivo emerge pur sempre un nucleo minimo essenziale – che manca fattispecie concreta – rappresentato dalla sussistenza, all’interno del contratto di cessione dei crediti in blocco, di elementi che nel loro complesso consentano di individuare – senza incertezze – i rapporti oggetto di cessione (Cass. 3118\2017).”>>
L’opposizione viene dunque accolta. Il difetto di prova della titolarità sostanziale del credito azionato in capo alla società opposta assorbe l’eventuale ulteriore accertamento correlato alle contestazioni formulate, in via subordinata, dagli opponenti.
La sentenza è passata in giudicato per non essere stata impugnata nei termini dalla società cessionaria del credito.
Non basta, dunque, allegare la pubblicazione in Gazzetta; il creditore – cessionario deve produrre anche il contratto o i contratti di cessione (se vi sono più cessioni successive dello stesso credito), se non vuole uscir sconfitto in Giudizio, come avvenuto questa volta per mano del nostro studio.